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Bosco è un borgo noto per essere stato centro attivo e partecipe dei moti del Cilento del 1828. Qui, infatti,…Read More
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Paestum fu uno dei centri principali della Magna Graecia. Le tracce più antiche di insediamento umano nel sito risalgono al…Read More
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Le suggestive grotte di Capo Palinuro, che oggi si specchiano in un mare cristallino, circa 130.000 anni fa (fase glaciale…Read More
Dal Medioevo al XV secolo: 1) Teggiano.
Teggiano è un borgo medioevale che ben ha conservato la fisionomia di roccaforte, e l’aspetto di oppidum romano, visibile ancora oggi dalla conservazione in pianta del Cardo e del Decumano rinnovato in epoca normanna e in età federiciana.
La collina su cui sorge oggi l'abitato, come le altre del Vallo, risulta frequentata a partire almeno dalla prima età del ferro (IX secolo a.C.) e, quasi senza soluzione di continuità, i reperti indicano la presenza di una popolazione sannita che ne occupò la sommità costruendovi una fortificazione megalitica, i cui resti appaiono inglobati alla base del castello.
L'alto livello di cultura raggiunto nel VI-V sec. a.C., è testimoniato dalla presenza di ceramica sia di fabbricazione locale che di provenienza dalla Puglia e dalle città greche della costa ionica. Resti di muri in poligonali, di età preromana, sono emersi nei pressi del castello; un pezzo di colonna con capitello figurato che richiama il tempio italico di Paestum, è murato presso la cattedrale; come altre testimonianza e iscrizioni che attestano la presenza romana almeno dalla fine del III sec. a.C. a tutto il IV d.C.. Di quest'epoca è l'interessante lastra di pietra, conservata nel Museo diocesano, su cui compare inciso per la prima volta il nome di Tegiana.
L'abitato antico probabilmente rimase distrutto nei tremendi scontri condotti dal re goto Totila nel 542 contro l'avanzare delle truppe del generale bizantino Belisario durante la sanguinosa guerra gotico - bizantina (535-553). Anche l'intera zona sottostante, divenuta quasi del tutto malsana, andò desertificandosi rapidamente.
Il colle tornò ad essere abitato solo alcuni secoli più tardi ed accolse l'insediamento di una piccola comunità di monaci greco - bizantini, attestata per la prima volta nei documenti nel 917 coi termini di civitas dianensis, retta dal prete-notaio Nardo, stretta attorno alle chiese di San Quirico e di San Biagio e protetta da una torre.
Nel 1261 (l'abitato era ormai conosciuto col toponimo di Diano), mentre si effettuavano gli scavi per la costruzione di una nuova chiesa intitolata alla Madonna, fu rinvenuto il corpo di san Cono, nativo del luogo (1100 + 2 giugno 1121) e morto giovanissimo mentre era ancora novizio nel vicino monastero di Cadossa.
È questa l'epoca nella quale i Sanseverino cominciano la loro espansione feudale ed economica nella valle (dalla città-fortezza prenderà il nome che conserva tutt'oggi, Vallo di Diano), e che li porterà a delineare quell'ambizioso progetto di bonifica che avrà il suo massimo sviluppo con la fondazione della Certosa di Padula.
Feudatari attenti e decisi, guardarono alla costruzione di chiese, santuari e conventi come ad un investimento sicuro e nei loro pressi o sulle vie che ad essi conducevano, attivarono o acquistarono vecchi mercati: nel 1332, ad esempio acquistarono la fiera dell'Assunta di Diano, completando in tal modo il loro reale controllo economico della città, che essi munirono con una turrita cerchia di mura ed edificando il castello riutilizzando le vecchie fortificazioni.
La loro lungimiranza li porterà a raggiungere una ricchezza tale da essere ostacolati dallo stesso re di Napoli, fino all'aperto scontro che si consumò proprio a Diano negli ultimi mesi del 1497, data che segna l'inizio della decadenza di questa famiglia, definitivamente tramontata cinquant'anni dopo.
Lì infatti Antonello Sanseverino, Principe di Salerno e signore dello Stato di Diano, insieme a molti altri feudatari della zona, ordì la Congiura dei Baroni, una sorta di sommossa fiscale contro il re di Napoli Federico d'Aragona e conclusa nel 1487 con l'accordo fra le parti.
Nei secoli successivi fu ambito feudo per le formidabili fortificazioni e per la feracità del terreno sottostante; subì perciò pochi passaggi e rimase Universitas autonoma fino all'eversione della feudalità, quando divenne capoluogo di Comune.
Riprese l'antico nome di Teggiano nel 1862. In questo stesso anno è registrato il suo massimo sviluppo demografico con 7018 abitanti: da allora, a causa dell'emigrazione, prima, poi del graduale trasferirsi degli abitanti verso la piana, cominciò il lento declino che lo ha portato alla bassa consistenza demografica di oggi.
A Teggiano è possibile visitare molti importanti siti artistici, come la Chiesa - Convento di San Francesco (XIV sec.), Il Castello dei Principi Sanseverino (di epoca normanna, è fra i più importanti dell’Italia meridionale), la Chiesa di Sant'Antuono (precedente al XI sec.), la Chiesa - Convento della SS. Pietà (XIV sec.), la Chiesa di San Martino (di epoca rinascimentale), la Chiesa di S. Pietro (trecentesca), la Chiesa - Convento di Sant'Agostino (XIV sec.), la Chiesa di San Michele Arcangelo (tra le più antiche di Teggiano), la Chiesa della SS. Annunziata (chiesa angioina eretta nel XIV sec.), la Cattedrale di Santa Maria Maggiore (del 1200 circa).
Ubicata sotto la collina dove sorge il paese di Padula, la Certosa di San Lorenzo è uno dei monasteri più grandi del mondo e tra quelli di maggior interesse in Europa per magnificenza architettonica e copiosità di tesori artistici.
L'edificio originario su cui sarà poi costruita la Certosa, la Grancia di San Lorenzo dell'Abbazia di Montevergine, già appartenuta ai monaci Basiliani, fu donata nel 1306 dal conte di Marsico e signore del Vallo di Diano, il normanno Tommaso Sanseverino, ai Certosini: ordine religioso fondato nel 1084 da San Brunone in Francia, a Chartreuse (da cui il nome).
Sulla decisione del conte Tommaso di fondare la Certosa pesò senz'altro la volontà di porre un sigillo al vincolo di fedeltà che lo legava alla dinastia francese degli Angioini, i quali nutrivano una particolare benevolenza in favore dell'ordine dei certosini: in tal modo rafforzò l'appoggio angioino alla sua posizione di signore del Vallo di Diano che, naturalmente, egli svolgeva per contraccambio in funzione anti- aragonese; il Vallo di Diano, infatti, era cruciale territorio di collegamento fra la Campania e la Calabria, quest'ultima sotto il controllo della dinastia aragonese.
In secondo luogo, inoltre, Tommaso Sanseverino potè contare sulla preziosa opera di bonifica che i Certosini svolsero nella valle invasa dalle paludi, a causa delle piene del fiume Tanagro, non più adeguatamente governate per secoli dopo la caduta dell'impero romano.
La Certosa di San Lorenzo fu progettata secondo la struttura tipica delle certose, dovendo rispecchiare la vita religiosa e pratica dell'ordine. L'organizzazione degli spazi seguiva la distinzione tra una parte alta, dove alloggiavano i padri certosini, conducendovi una vita intimamente religiosa ed ascetica; e una parte bassa, cioè gli ambienti che, per la loro collocazione bassa, per l'appunto, erano adatti all'esercizio delle attività mondane. Qui stavano i conversi, che avevano il compito di curare i rapporti con le comunità residenti nel territorio circostante, di amministrare i beni dell'ordine, di sovrintendere alle attività agricole ed artigianali.
La tipica pianta della costruzione doveva ricordare la forma della graticola, quindi il martirio del Santo cui è dedicata. Un muro molto esteso, pensato a scopo di difesa, circonda il monastero. Immediatamente dietro le mura vi erano gli orti. Dopo avere varcato il portale d'ingresso si potevano osservare i depositi, le stalle ed il ricovero per i pellegrini. Anche la chiesa era divisa tra una parte alta, riservata ai padri, e una parte bassa, per i conversi.
La Certosa, pur avendo subito profonde trasformazioni nel corso dei secoli, ha conservato la sua struttura delle origini. Per quanto riguarda i particolari, invece, rimangono soltanto le volte della chiesa ed elementi architettonici vari trasferiti dalla loro ubicazione originaria per essere riutilizzati in altri ambienti. La porta della chiesa è del 1300. Al 1400 risalgono il bassorilievo in pietra al lato delle scale che conducono alla foresteria e, probabilmente, la bella scala a chiocciola che porta alla biblioteca. Nel 1500 furono costruiti, in particolare, i due cori della chiesa, una riservata ai padri e l'altra ai conversi, e il chiostro della foresteria. I lavori per la ristrutturazione e l'ampliamento del chiostro grande si protrassero oltre la metà del '600. In questo secolo la chiesa fu impreziosita con arredi sacri in argento. Nel corso del '700 fu edificato il refettorio attuale, mentre i vari ambienti furono abbelliti con decorazioni in stucco.
Passato il Regno di Napoli sotto il dominio della Francia di Napoleone Bonaparte, gli ordini religiosi furono soppressi, e così la Certosa di Padula cadde in disgrazia: essa fu spogliata del suo patrimonio di libri, d'archivi e d'arte, dei suoi tesori in oro ed argento, del Tabernacolo in bronzo, oggi nuovamente collocato nella sagrestia del Convento.
Cessata la dominazione francese, i certosini poterono tornare nel monastero. L'antica magnificenza rimase però soltanto un ricordo nostalgico d'altri tempi e, anzi, vi fu una progressiva decadenza che portò nel 1866 alla soppressione del monastero. Nel 1882 la Certosa fu dichiarata monumento nazionale e affidata alle cure del Ministero dell'Istruzione Pubblica. Ciò nonostante non seguirono interventi concreti di recupero, così il peggioramento del suo stato proseguì. Solo a partire dal 1982, quando il monastero fu affidato alla Soprintendenza dei Beni Ambientali, Architettonici, Artistici e Storici di Salerno, furono avviati lavori importanti di restauro e promosse iniziative di valorizzazione.
Oggi la Certosa, divenuto centro vitale d'iniziative culturali d'ampio respiro, ospita il Museo Archeologico della Lucania Occidentale e laboratori di restauro altamente qualificati. Per la sua incomparabile bellezza, è stata iscritta nella lista dei siti Patrimonio dell’Umanità UNESCO.
Tra i borghi che sono stati importanti manieri, c’è un luogo che testimonia del sorgere di monasteri italo – greci: Camerota, dove è possibile percorrere l'antico sentiero che attraverso i resti di antichi terrazzi marini conduce al monastero basiliano di S. Iconio (IX-X Sec.), esempio fulgido di una storia lunga, ricca e forse troppo poco conosciuta, ma fondamentale per chiunque voglia scoprire quanto è profondo il legame tra l’Oriente e l’Occidente.
Nei secoli successivi alla Guerra Gotica tra l'impero bizantino e gli Ostrogoti (V-VI secolo) si produsse un flusso migratorio di monaci greci, detti basiliani, la cui origine è nel monachesimo orientale basato sulle Regole di San Basilio (330-379), vescovo di Cesarea, studioso della Bibbia e della cultura stoica e neoplatonica, vicino ad altre due importanti figure della cristianità orientale di impronta ellenistica: S. Gregorio di Nissa, di cui è fratello, e S. Gregorio Nazianzeno, compagno di ritiro, che sono attivi in Cappadocia.
I monaci basiliani si rifugiarono nel Cilento e nei territori calabro - lucani in seguito allo scoppio della lotta iconoclasta voluta, nel 726 d.C., dall'imperatore Leone III Isaurico che sconvolse l'intero Oriente, costringendoli alla fuga.
Secondo l'insegnamento di San Basilio, infatti, l'immagine, al di là dell'iconolatria, rappresenta uno strumento di evangelizzazione che poteva facilmente comunicare alle masse dei fedeli la Parola di Dio.
In realtà già tempo prima, nel corso del VI secolo, durante la campagna militare contro i Goti guidata da Narsete (fondatore del castello di Roccagloriosa), molti religiosi erano venuti in Italia con le armate di Bisanzio, ed altre migrazioni seguirono alla conquista araba dei Balcani e all'ascesa al trono imperiale d'Oriente dell'imperatore Eraclio, fautore dell'eresia monotelita durante il VII secolo.
Tuttavia fu solo durante la lotta contro le immagini che il flusso migratorio nel Cilento divenne considerevolmente rilevante, allorché i monaci preferirono stanziarsi in territori esterni a quelli politicamente controllati dal basileus e quindi soggetti alle leggi iconoclaste. Sbarcati perlopiù a Velia, della quale conoscevano presumibilmente il nome per la venerazione delle reliquie dell'apostolo Matteo, i primi monaci basiliani procedevano verso l'interno in cerca di un luogo sicuro lontano dall'imperatore e dalle scorrerie saracene.
La seconda fase, quella lauriotica, portò i monaci a riunirsi dapprima in cellae e quindi in laurae. Si veniva così a sviluppare un nuovo modello: quello cenobitico o conventuale, che consisteva essenzialmente in un più stretto rapporto tra il monaco e il fedele. Molti aggregati monastici sorgono dunque in questa fase nei centri abitati, o al contrario veri villaggi sorgono per incellulamento accanto a primitivi monasteri. Presupposto essenziale per questa ulteriore evoluzione del monachesimo basiliano è certamente, in questo stadio, un sensibile aumento del flusso migratorio nella direzione del Cilento.
Ciò fu in buona parte dovuto all'oculata gestione politica dei principi longobardi di Salerno, i quali si resero conto dell'opportunità che veniva offerta dalla presenza dei monaci in quell'angolo sperduto del loro principato per lo sviluppo economico-sociale di quei territori. Furono dunque i principi di Salerno ad estendere la loro tuititio, la loro protezione, ai monaci italo - greci che sempre più numerosi giungevano “en tois meresi ton prinkipion”, nella regione dei principi, come si legge in un antico sinassario di Grottaferrata.
Cambiava, a questo punto, profondamente la figura del monaco che da asceta diveniva elemento attivo nel tessuto sociale delle campagne cilentane. Venivano ridotte a coltura, grazie alla loro opera, zone selvose e sterpose, altre erano dissodate, altre ancora adibite a piantagioni e, cosa più importante, autentici villaggi agricoli erano da essi costruiti nel circuito agrario del cenobio.
Fu San Fantino a stabilirsi nella zona del golfo di Policastro che divenne poi nota come Monte Bulgheria. Qui già da tempo esistevano delle cellae, e questa traccia è rimasta ai nostri giorni nel toponimo del Comune che sorge ai piedi del monte Bulgheria: appunto, Celle di Bulgheria.
La presenza basiliana nel Cilento è del resto riccamente documentata dall'agiografia, la quale testimonia l'eccezionale fiorire di Cenobi in quest'area. Nel monastero di San Nazario, nei pressi dell'odierna San Mauro La Bruca, San Nilo fu tonsurato monaco e nel Cilento il Santo di Rossano fu certamente nel 940 per sfuggire alle persecuzioni del tumarca: «egli penetrò in una regione tutta longobarda, ma pure ricchissima di eremi e cenobi bizantini», scrive il biografo del Santo a proposito del suo viaggio nel Cilento.
Ancora l'agiografia ci riferisce i nomi di alcuni santi tuttora venerati in un ampio territorio verso il quale si estese l'influenza basiliana: S. Saba, S. Nicodemo, S. Fantino, S. Demetrio, S. Nicola di Mira, S. Elia, S. Bartolomeo, S. Filadelfo, S. Cristoforo. Lo scisma del 1054, avvenuto proprio l'anno prima della morte di San Bartolomeo, non comportò la scomparsa del rito greco in queste terre, che dovette però affrontare la temibile ingerenza della Badia di Cava de'Tirreni, fondata da Sant'Alferio Pappacarbone e destinata, grazie alle numerose concessioni dei principi, a diventare sotto il dominio normanno il principale referente religioso del Cilento, portando tra l'altro ad una progressiva esautorazione delle diocesi locali.
Roccagloriosa vanta origini antichissime, con tracce di presenza umana già nella media età del bronzo. Si susseguirono nel suo territorio insediamenti di popoli quali Enotri, Morgeti, Osci, ma l'insediamento più importante fu certamente il centro lucano (V-IV sec. a.C.) che fu insediato a ridosso del monte Capitenali, allo sbocco della principale direttiva viaria che collega il Vallo di Diano al Mar Tirreno, laddove i Sibariti costruirono “La città di Leo”.
La posizione dominante dell'insediamento consentiva il controllo visivo di un vasto territorio interno, dell'intero golfo di Policastro e delle vallate dei fiumi Bussento e Mingardo. Le genti di questa città, che occupavano un'area molto vasta fortificata nel IV sec. a.C. con mura ciclopiche, avevano contatti commerciali con la costa tirrenica ed i suoi insediamenti greci, come nelle altre colonie lucane (Roscigno, Buccino) e con Taranto, come documentano i ritrovamenti di vasi e il prezioso corredo d'oro di fattura tarantina ritrovato nella tomba di una ricca giovane.
Una vasta necropoli in località La Scala ha fornito agli studiosi preziosi elementi per lo studio degli usi lucani, mentre il centro abitato ha fornito elementi sulla costruzione delle abitazioni sviluppate intorno ad un cortile. Tra i siti archeologici ed i beni architettonici, notevole importanza assumono le tombe del IV sec. a.C., situate lungo la strada di accesso. Sotto il profilo scientifico costituisce uno dei siti pre-romani meglio conosciuti ed indagati di tutta la Magna Graecia, specie per ciò che riguarda i complessi abitativi visitabili sul cosiddetto pianoro centrale.
I più significativi rinvenimenti da tali contesti sono esposti nell'Antiquarium di Roccagloriosa. La necropoli in località La Scala consente poi di seguire gli sviluppi della comunità locale ed identificarne il tipo di cultura materiale. Il rituale funerario documentato dai corredi rinvenuti nelle tombe non lascia dubbi sul fatto che il poderoso sviluppo del sito nel corso del IV sec. a.C. sia dovuto a genti di cultura lucana. Particolare importanza assumono, per l'elevato livello di ricchezza, le tombe 9 e 6 rinvenute in tale necropoli.
Con un “salto nel tempo” di un paio di secoli, è possibile visitare i ruderi del castello, la cui fondazione da parte di Narsete probabilmente risale al 500 d.C., (quando Roccagloriosa continua ad essere un importante punto di riferimento per i manieri fortificati della zona), con una piccola cappella dedicata alla Vergine Gloriosa, da cui il nome del paese.
Fu costruito da soldati bulgari e oggi sono visibili i resti delle mura e la cisterna sotterranea.
Le suggestive grotte di Capo Palinuro, che oggi si specchiano in un mare cristallino, circa 130.000 anni fa (fase glaciale Riss) erano circondate da un paesaggio completamente diverso.
Il mare che era arretrato per centinaia di metri dall'attuale linea di costa aveva lasciato spazio a fitti boschi chiazzati di ampie radure; la fauna era prevalentemente costituita da stambecchi, daini, cervi, cavalli, orsi e leoni delle caverne, mentre le grotte erano riparo dell'Homo erectus.
La lunga e straordinaria stagione preistorica di questo sito è osservabile nelle dune fossili dei dintorni della Molpa, dove si ritrovano resti d'industrie levalloiso- musteriane, pontiniana e del Paleolitico superiore (si vedano, ad esempio, le ricerche di A.C. Blanc).
Tra Palinuro e Marina di Camerota sono state esplorate oltre 60 grotte, tra cui la Grotta Visco e la Grotta delle Ciavole, accessibile solo dal mare con resti di fauna; e soprattutto, vista l’importanza dei ritrovamenti fossili, la Grotta delle Ossa, dove si possono osservare i resti di un tale zoo, levigati dalle onde del mare e sedimentati tra le rocce.
Visitare questi siti dalla “prospettiva del mare” consente di poter avere un punto di vista d’insieme su come potevano apparire questi luoghi migliaia di anni fa, con la loro natura selvaggia, gli strapiombi, le grotte e le insenature che offrivano riparo all’uomo primitivo.
I siti preistorici di Marina di Camerota sono testimonianza importante sia per la densità degli abitati che per l'ampio arco cronologico che essi coprono. Si può infatti stabilire una successione temporale che, salvo poche interruzioni, conduce da circa 500.000 anni fa fino alle soglie della storia.
Sono abbondanti soprattutto i reperti del periodo Paleolitico, quando l'uomo, ancora nello stadio culturale della caccia e della raccolta, ha incontrato nel Cilento un ambiente favorevole per clima, ricco di selvaggina e di ricoveri naturali come ripari e caverne.
Le tracce più antiche della presenza umana si ritrovano presso Marina di Camerota, nella baia di Cala Bianca, dove sono stati raccolti strumenti di pietra la cui età stimata sfiora il mezzo milione di anni. Poco più recenti, ma sempre relativi al Paleolitico inferiore, sono i reperti di Cala d'Arconte e Capo Grosso, che comprendono splendidi strumenti bifacciali in pietra silicea.
Una maggiore diffusione di insediamento si ha nel Paleolitico medio, in un intervallo di tempo che va da circa 100 mila a 25 mila anni dal presente, quando l'incalzare di un periodo glaciale spinse l'uomo a ripararsi nelle caverne. Per questo molte delle grotte naturali della costa camerotana racchiudono resti di attività umane del periodo Musteriano: si tratta di strumenti ottenuti da schegge di pietra, ossa degli animali cacciati, nonché strati di cenere e carboni residui degli antichi focolari.
Protagonista dello stanziamento musteriano è l'uomo di Neanderthal, del quale possediamo un importante resto fossile scoperto nel Riparo del Poggio in località Lentiscelle. L'avvento del Paleolitico superiore (da 25 mila a 10 mila anni dal presente) e dell'Homo Sapiens è ben documentato alla grotta della Cala dalla quale provengono, in regolare successione stratigrafica, reperti del periodo Aurignaziano (30 mila anni), del Gravettiano (27 mila anni) e dell' Epigravettiano (dai 16 mila ai 10 mila anni). Questa serie stratigrafica trova estensione e completamento nella vicina grotta della Serratura, dove ai livelli dell'Epigravettiano finale si sovrappongono strati dei Mesolitico (8-9 mila anni) e del Neolitico (6 mila anni circa dal presente).
La scoperta del Neolitico, avvenuta in questi ultimi anni, è di grande interesse poiché finora non vi era testimonianza di questo periodo nell'area in esame. I manufatti cominciano a comprendere, oltre ad altri strumenti in pietra, la ceramica; è il sintomo di uno straordinario cambiamento antropologico: l'uomo ha oltrepassato la sua fase culturale di cacciatore ed è divenuto agricoltore ed allevatore.
Il periodo più recente della preistoria cilentana è rappresentato dagli strati dell'età del Bronzo (circa 3.700 anni da oggi), presenti in più siti, ma soprattutto nella grotta del Noglio. I frammenti di ceramica costituiscono la maggior parte dei reperti e si associano a sicure tracce di attività legate alla pesca.